In quel grido finale del protagonista tutta l'insensatezza della vita e della morte che, a volte, vorremmo urlare anche noi.
Questo romanzo è per me la rappresentazione perfetta dell'indicibile: riesce a fare sentire al lettore la lontananza tra gli esseri umani, l'incapacità di comunicare un dolore, una disperazione, la felicità, l'affetto. Tutti sono così distanti. Nessuno potrà mai capirci davvero. Siamo stranieri gli uni per gli altri. Ci si può sentire soli anche in mezzo ad una folla, tra gli amici e con i familiari più intimi.
Il protagonista si rende conto dell'indifferenza dell'universo nei confronti di ciascuno di noi e si sente perso. Cosa importa quanto vivremo? Dovremo comunque morire. Nulla ha importanza; una cosa, in fondo, vale l'altra. La vita e la morte, semplicemente, capitano. Siamo in balìa degli eventi, del caso, delle circostanze, su cui non abbiamo potere. In fondo, dice un personaggio, "ci si abitua a tutto".
Si ha la sensazione, nel libro, che le norme sociali e i credi religiosi siano solamente un tentativo umano di creare un ordine, di dare un significato ad un'esistenza che un significato non l'ha. La società si dà delle norme e dei valori che i membri devono rispettare. Questo rispetto, però, è solo esteriore e può essere giudicato solo dai fatti. Nessuno sa come ci si sente dentro, quali siano le reali motivazioni che ci spingono a comportarci in un determinato modo. Il protagonista è uno straniero nei confronti delle norme sociali: non capisce perché le persone lo giudichino da fatti esteriori, da avvenimenti che sono avvenuti per caso, da situazioni in cui si è trovato coinvolto. Un vero essere umano, cioè qualcuno che possiede un'anima, avrebbe dovuto piangere al funerale della madre, non avrebbe dovuto andare a vedere un film comico lo stesso giorno, avrebbe dovuto voler pregare Dio, pentirsi, e avrebbe dovuto sparare una sola volta. Il protagonista si ritrova ad essere assurto come simbolo di degrado morale perché è uno straniero sociale e porta con sé il sovvertimento di regole di buon costume condivise, porta con sé il caos, il caso, la mancanza di senso e di volontà. E' menomato, è senza cuore. Simbolo di decadenza, viene condannato.
A questo punto, nulla ci impedirebbe di scivolare nel nichilismo. Eppure, la felicità esiste e deve essere ricercata. Essa consiste nel trovare il proprio "senso". A cosa attribuiamo valore? Cosa ci fa stare bene? Come possiamo migliorare la nostra condizione? Lì sta tutto il senso della vita: nel vivere.
Mi ha colpito la scena in cui il protagonista passa quasi una intera giornata al balcone, fumando e osservando cosa accade in strada. Vede la gente passare, vede il tempo cambiare, vede la vita succedere ed è felice. Tutto questo ha un senso. E lui può, alla fine, dire con sicurezza di aver vissuto: può entrare dettagliatamente nei suoi ricordi, nei luoghi che ha amato, rivivere momenti e sensazioni, essere consapevole delle scelte fatte o non fatte. Non è in balìa di speranze future, come la religione impone, ma è certo del suo senso personale. Sembrava essere a mani vuote, ma non è così: aveva la verità, quella semplice della morte e della vita, e questo gli era sempre bastato. Siamo tutti dei privilegiati se capiamo il valore della vita. E in quest'ottica, niente ha importanza ma anche tutto ha importanza. Siamo noi a decidere. Nella prospettiva della morte, possiamo essere liberi e pronti a vivere, davvero. E forse è proprio perché esiste la morte che dalla vita possiamo trarre un senso.
"Gli dei ci invidiano, ci invidiano perché siamo mortali, / perché per noi ogni attimo può essere l’ultimo, / ma allo stesso tempo / in ogni attimo risplendono tutti gli attimi della nostra vita, / quelli già vissuti / e quelli ancora da vivere”, da "Troy".
Un'opera potente.
Alice
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